01 novembre 2007 ore 23.53
Chinare il capo - LABORATORIO SULLA SOFFERENZA - 2 giorni diocesana per educatori
01 novembre 2007
ore 23.53

AZIONE CATTOLICA DIOCESI DI ASCOLI PICENO
2 giorni per educatori – Montegallo 2007


Testimonianze "Chinare il capo"

IL FIDANZAMENTO
Io e Roberto ci conosciamo da poco più di un anno.
Dopo la prima volta che ci siamo incontrati io e lui, da soli, alla mia amica che mi aveva
raccomandato di fargli sapere come era andata, ho lasciato questo messaggio: "Apparteniamo a mondi lontani. E' stato piacevole comunque".
La consapevolezza della differenza c'è stata da subito, ma non subito messa a tema. I primi mesi sono passati in fretta. Io godevo di quello che stavo vivendo e questo mi bastava. Era una primavera inaspettata e avevo paura che finisse.
Ogni volta che ci vedevamo ero cosciente che poteva essere anche l'ultima. Ci cercavamo, ci
piacevamo e ci sentivamo bene insieme, ma erano talmente poche che cose che avevamo in
comune.
Io ho fatto della ricerca di senso il faro della mia vita. Questo mi ha portato, ormai da quasi quindici anni, a mettermi in cammino, un cammino che è passato per esperienze anche fuori del comune: una lunga permanenza a Taizé, gli anni di studio di teologia, un impegno ecclesiale che è diventato anche un impegno professionale. La scelta di fede è centrale per me; è il mio 'centro di gravita permanente".
Penso di essere costitutivamente portata a problematizzare ogni cosa e a scegliere dopo averci ben riflettuto. Questo fa sì che le mie decisioni siano ponderate e le mie opinioni ben radicate. Sono una che cerca di "render ragione" e credo di riuscirci anche.
Ho sempre pensato che il compagno della mia vita avrebbe avuto più o meno le stesse
caratteristiche. Non essendo più tanto giovane, ho avuto anche tanto tempo per affinare le
caratteristiche che avrebbe dovuto avere il mio uomo ideale. Innanzitutto un uomo che pesa le
parole e sa trovare quelle giuste. Io mi sciolgo davanti ad un uomo che riesce a dire quello che io vorrei, ma non riesco a fare. E poi sicuramente essere qualcuno di impegnato intellettualmente e culturalmente.
Invece mi piaceva Roberto, una persona intelligente e simpatica, ma che non rispondeva ai miei requisiti. Per niente intellettuale, non molto impegnato socialmente, senza una scelta in rapporto alla fede.
Dopo il primo periodo in cui ero consapevole delle questioni, ma non ero pronta a prenderle in
mano, ho passato mesi di conflitto interiore (e non solo). Volevo bene a Roberto, stavo bene con lui, ma una parte di me non accettava che mi piacesse. Non era ciò che io volevo lui fosse. Con nessuno sono stata tanto crudele quanto con lui. Davvero il mio rapporto con Roberto mi ha fatto scoprire lati di me che mi hanno lasciato sorpresa. Mi sembrava di accettare gli altri per quello che sono, di essere accogliente e rispettosa della diversità altrui. Mi sono scoperta esigente ed intollerante. A Roberto ho fatto pesare tanto il fatto che lui non corrispondesse alle mie aspettative. No, non mi veniva facile accettarlo così com'era e non perché fosse o facesse qualcosa di sbagliato, ma semplicemente perché non era ciò che io volevo lui fosse.
Una volta mi ha scritto "Io sono quello che hai visto finora, con le mie incoerenze, indecisioni,
propensioni a brutte figure, uscite poco felici, discorsi strampalati, atteggiamenti poco consoni alle
situazioni, con i miei goffi tentativi di cercare di capire chi sono e cosa voglio, e chi più ne ha più ne metta. Ma sono così. Se decidessi di costruire una casa insieme a me ti assicuro che farei l'impossibile perché sia una bella casa stabile e sicura, ma non posso diventare quello che non sono. In quanto al volere bene per quello che si è Roberto mi ha insegnato tanto. Anch'io sono diversa dalla donna dei suoi sogni: le mie convinzioni religiose, il mio impegno ecclesiale, la serietà con cui affronto la vita l' hanno messo in discussione e a volte anche in imbarazzo nei confronti dei suoi amici. Però non ho mai sentito da parte sua nessuna pressione: lui ha preso atto che vuole bene ad una persona diversa da quella che poteva immaginare, ma gli vado bene così.
Ci sono stati momenti in cui volevo buttare tutto all'aria. Sentivo dentro di me una ribellione:
perché Dio non mi hai dato l'uomo perfetto che volevo? Sì, c'entrava anche Dio. Roberto è entrato nella mia vita in modo inaspettato. Ho sempre avuto la convinzione che fosse una possibilità, un dono che Dio mi offriva. Non so come spiegarlo, ma ho sempre sentito che era una storia "giusta", "gradita a Dio". La fatica ad accettare Roberto per quello che era metteva in crisi anche il mio rapporto con Dio.
Credo che il punto di svolta sia stata una lite che io e Roberto abbiamo avuto. Eravamo a casa sua ed io me ne sono andata, convinta che eravamo al capolinea. Il pensiero che tutto fosse finito mi ha angosciato a tal punto che ho capito che Roberto faceva parte integrante della mia vita, lo volessi o no. Stavo combattendo una battaglia che, in nome della perfezione, avrebbe avuto solo sconfitti. Perché, invece, non accettare la realtà di due persone che si amano, nonostante, o forse proprio, per la loro diversità? Perché non godere e rendere grazie per questo amore che, nonostante le imperfezioni e i limiti, ci fa gustare la vita e da senso alle nostre esistenze?
Non che sia facile tra di noi. Eravamo e siamo diversi, apparteniamo ancora a mondi lontani che, però, cercano di avvicinarsi. Tra di noi niente può essere dato per scontato. E' una fatica, ma è anche una continua sorpresa: la sorpresa di sentirci vicini nonostante tutto, la sorpresa di sentirci profondamente in sintonia, la sorpresa di essere meno lontani di quanto crediamo, la sorpresa di comprendere il senso del nostro stare insieme.

CHINARE IL CAPO DI FRONTE ALLA MALATTIA

Carissimo,
domani inizierò ‘ufficialmente’ il quarto anno di teologia e di seminario e sinceramente non so con precisione con quali aspettative ed attese lo affronterò. Sono appena tornato da Lourdes dove come seminario abbiamo trascorso la settimana ‘nazionale’ dell'UNITALSI; i miei compagni si sono cimentati egregiamente come 'barellieri', io ho vissuto questo tempo da semplice pellegrino. Sono tuttavia riconoscente al Signore per questa opportunità che mi ha concesso di vivere un tempo di pausa e riflessione personale molto importante e significativa. L'intero tempo del pellegrinaggio l' ho vissuto su una sedia a rotelle...e nonostante la difficoltà iniziale nell'accettare questa 'novità', ho assaporato a lungo andare la grazia di vivere a contatto con i miei 'fratelli' handicappati. Per la prima volta, forse, mi sono sentito in tutto e per tutto uno di loro, senza vergogna seppur con un profondo dolore nel cuore. Ho avuto occasione di osservare con discrezione i volti di questi 'piccoli', la gioia che provavano nel vivere una relazione fraterna con i barellieri e le sorelle (le "dame"); di ascoltare dai loro gesti e dalle loro voci, anche scomposti e talvolta urtanti, la bellissima 'teologia' che scaturisce da loro, l'inno di lode vero e sofferto che ogni giorno sanno innalzare al nostro Creatore. Ho iniziato a comprendere perché la Chiesa li tiene in profonda considerazione. quale grandissimo insegnamento e ricchezza sanno offrire a tutti noi, perché, in sostanza, la Chiesa poggia saldamente su queste 'pietre di scarto' autentiche 'testate d'angolo' del popolo di Dio. Ho pianto con loro la loro solitudine che è anche la mia, la loro paura che è anche la mia, i loro dubbi di fede che sono tanto, ma tanto, i miei. E io sono come loro, sono uno di loro che mi piaccia o no!. E' duro da digerire tutto questo ma credo che sia questa la nuova identità che sono andato scoprendo su di me e tu sai con quanta fatica. Non dico di essere giunto ad accogliermi completamente, ne a far scivolare via quella rabbia profonda che è cresciuta in me nel tempo, direttamente proporzionale alla consapevolezza del mio limite, ma certamente mi sono ritrovato più vero....abbandonando finalmente, seppur in parte, quell'immagine fallace ed inutile che avevo desiderato e caparbiamente costruito su di me ed intorno a me. Non so cosa tutto questo comporterà, certamente rimette profondamente in discussione la mia scelta. Non sono orgoglioso di dover ammettere che la scelta del seminario sia stata anche dettata, non so in quale percentuale, dalla paura della solitudine, dai timore di non essere accolti, dall'angoscia della 'morte', certo quello che mi è dato, credo, sia la 'grazia' (lo dico a denti strettii!!!) di poter sondare più a fondo il mistero del dolore e della croce. Sto mettendocela tutta per accantonare la profonda rabbia che mi porto dentro o, comunque, per 'incanalarla' nel migliore modo possibile senza cadere in illusorie 'fughe' dal mondo in una fantasia che ti offre tutto ma non ti lascia niente se non una maggiore solitudine. Sto cercando di accettare di entrare nella morte e di rimanervi nella attesa che il Signore mi prenda per mano e mi accompagni a viverla fino in fondo per risorgere insieme con Lui. E' un cammino lungo, doloroso ma entusiasmante; doloroso in quanto oltre ad accettare la mia 'identità' segnata dal limite (ma senza il limite non sarei io e non ci sarebbe la 'mia' identità), devo accettare i miei errori, le mie fughe, i miei tentativi talvolta goffi e 'fanciulleschi' di saltare l'handicap. Non mi sento di accusarmi rigidamente di quanto fatto in questi casi, ne di guardarmi con pietà, ma con sana compassione. Vedendo quei 'fratelli' nella disgrazia......, vedendo quanto desiderassero affetto, quanto soffrissero la solitudine e cercassero appagamento anche 'a buon mercato' (l'espressione complessiva è sgradevole ma spero tu abbia capito cosa intendo dire!), ho rivisto molti dei miei atteggiamenti e delle mie fughe e pertanto non ho potuto che com-patirli, e con essi, come detto, compatire me stesso. Senza amore non si vive! Cercarlo, desiderarlo, assaporarlo è giusto e doveroso: talvolta pur di ottenerlo ci 'vendiamo', talaltra accettiamo di essere noi stessi in tutto e per tutto e lo troviamo. In fondo per accogliere quel samaritano che ci si fa prossimo dobbiamo accettare prima di tutto di essere quel malcapitato ferito e piagato ai bordi della strada bisognoso di aiuto. Questo sto cercando di fare anche se, sinceramente, non mi piace poi tantissimo pur consapevole che si tratta di un passaggio ineludibile. Ho trascorso gran parte della mia vita cercando di vivere, per quanto possibile, in modo 'normale', certo facendo molta più fatica, rinunciando a qualcosa, ma sostanzialmente, rimanendo a galla. Ora invece mi rendo conto che la mia prima vocazione, come già ti dissi, è quella di vivermi come sono, con il mio handicap, accettando anche la solitudine, talvolta il rifiuto, il pianto e un ruolo 'marginale'; questo è il grande paradosso che mi affascina e nello stesso tempo mi sconvolge: quello che ho sempre cercato di evitare, superare e minimizzare, ovvero l'handicap e la solitudine che esso portava con sé, sono invece la grande risorsa e la grande ricchezza che Dio mi ha messo nelle mani. È difficile pertanto interiorizzare questo "scandalo"; se tuttavia porrò al centro della mia esistenza la resurrezione di Cristo e farò della speranza che non muore il motore del mio camminare, tutto avrà un senso e una bellezza mai assaporata prima. Questo è quanto sto cercando di fare e farò nell'immediato futuro. Ringraziandoti per avermi sopportato ora e nel passato, affido a tè e alla tua preghiera questo 'tempo nuovo' che mi attende, spero di mantenere un cuore aperto e disponibile alla azione dello Spirito e soprattutto di decidermi, finalmente, con coraggio secondo la volontà di Dio. A presto e buon anno pastorale.


CHINARE IL CAPO DI FRONTE ALLA MORTE
L'esperienza che ho vissuto e che sto vivendo è caratterizzata prevalentemente dall'ambiente ospedaliere, ho frequentato per un certo periodo contemporaneamente l'Hospice di Brescia e un reparto di Medicina generale.
(Una delle prime cose che ho notato era il commento dei medici alla morte di uno dei "loro" pazienti: 'abbiamo perso un paziente'. "Dove, per strada"? mi veniva da chiedere. )
All' Hospice si viene ricoverati per morire e si lavora per permettere che gli ammalati possano morire il meglio possibile.
Ci sono pazienti che sono consci di avere poco tempo da vivere e affrontano consapevolmente la propria morte. Ma molti altri non lo sanno, o non lo vogliono sapere e coinvolgono anche gli altri nel fingere, forse semplicemente perché l'idea di morire li spaventa troppo. In un primo momento, mi veniva voglia di scuoterli e di dire loro: "Renditi conto, non buttare via il tuo tempo", ma ho compreso poi che questo atteggiamento è di difesa.
Ho imparato per prima cosa la consapevolezza della preziosità del tempo. Vivere consapevolmente ogni momento, far bene ciò che devi fare, non lasciare in sospeso troppe cose. Gioire delle cose, lodare Dio per esse.
Vedevo morire molte persone, o sapevo che erano morti. Alcuni li ho salutati per l'ultima volta all'obitorio. Lentamente imparavo ad 'accettare' la morte, o meglio, prendevo atto della sua esistenza e non fuggivo via, riuscivo, perlomeno parzialmente, a contenere il dolore che mi causa. La riconoscevo come parte della vita, ed essa mi insegna a scegliere, a spendere il mio tempo per le cose importanti, a volgere lo sguardo alla Gerusalemme celeste, al compimento. Ma ogni uomo che muore, come il Cristo pendente dalla croce, suscita in me un sentimento misto tra scandalo e sgomento.
Un giorno moriva una donna dell'età della mia sorellina, di tumore al seno, e mi sentivo lacerare il cuore: " E se fosse mia sorella"? Prima della malattia era bella; aveva una bambina piccola ed era medico: altra trafitta. Questa donna non riusciva ad accettare che la sua malattia non poteva essere guarita dai medici. Si avvicina alla morte tra sofferenze sconvolgenti, infine, quasi per grazia, scivola in un coma che lentamente lascia spazio alla morte. Riducevo la distanza di protezione tra la morte e me stessa, le permettevo di toccare i miei affetti. me stessa; mi domandavo: e io, cosa farei nella sua situazione?
Di fronte al ricovero di un bimbo dell'età di tre settimane, destinato a morire soffocato, mi rendo
conto lentamente che dovevo trovare un atteggiamento che mi permetteva di accettare la possibilità che io stessa muoia, come anche quello di sopportare che altri muoiano. Sviluppavo le prime strategie di contenimento del dolore, pensavo per esempio alle cose che avrei fatto, se avessi saputo di avere solo un determinato periodo di vita ancora da vivere.
Sono anche conscia del fatto che morire sarà diverso da quello che mi immagino.
Non attaccarsi troppo alle cose della terra, vivere da pellegrini in cammino.
Quello che mi sconvolge ora è la sofferenza dell'altro. Perché quel bimbo deve morire così?
Sofferenza e morte sono strettamente collegate, la sofferenza ti ricorda la morte, ma talvolta è così sconvolgente che si vorrebbe invocare la morte, come fuga, per colui che soffre, piuttosto che continuare a vederlo soffrire, perché chi guarda non riesce più a contenere il dolore.
Passa del tempo, tempo in cui anche la mia preghiera era costantemente colma dalle immagini dei morenti e sofferenti.
Ma che senso ha il morire? La morte è il cuneo che impedisce che si chiuda la porta verso il trascendente, la spina nei fianco che impedisce che ci arrediamo troppo nell'al di qua. la spinta che ci obbliga a crescere spiritualmente e umanamente, la cui piena accettazione ci dona la libertà cristiana.
E infine, la morte deve essere vissuta come il compimento, verso il quale tendiamo.
Dopo quasi 2 anni di frequentazione dell'Hospice tornavo in un reparto di medicina generale. Mi trovavo responsabile, almeno in parte, della salute dei pazienti che mi sono stati affidati.
Un paziente era in condizioni gravi, aveva una emorragia al cervello, e lo vedevo peggiorare
rapidamente. Dovevo preparare i suoi parenti all'eventualità che morisse, pur sperando e pregando per lui.
Nel frattempo ho anche familiarizzato con le diverse reazioni dei familiari; quelle del tipo:
"piuttosto di vederlo soffrire, che faccia presto" o anche accenni o richieste di aiutare il parente a morire o domande del tipo: "quando finalmente morirà?". Ci sono poi quelli che apparentemente sembrano accettare l'inevitabile, e quelli sinceramente tristi oppure disperati; solo per fare qualche esempio, ma lo spettro delle reazioni è vasto.
La costante di tutte le reazioni è il non essere preparati ad affrontare la sofferenza e la morte, soprattutto per coloro che esternano affermazioni molto pesanti. Una nipote del paziente in peggioramento, era tra i parenti che desideravano parlare con me. Il paziente è suo nonno, con il quale viveva, ed era la prima persona che vedeva morire. Parliamo a lungo, la faccio raccontare della vita del suo nonno, poi la incoraggio a sedersi vicino al lui, a tenergli la mano e a dirgli tutte le cose che avrebbe voluto dirgli, ma che non ha mai detto a lui. Il nonno è già in coma, ma le dico che sono certa che sentono la nostra presenza come anche il non essere lasciati soli. La vedo a lungo parlare con il nonno, verso sera lo portano, oramai morto, a casa.
C'è poi un paziente di quelli piuttosto burberi, difficili, capricciosi. Necessita dell'esecuzione di una TAC encefalo. Deve essere accompagnato da un medico per le sue condizioni di salute, e viene accompagnato anche dalla figlia. Sotto la macchina della TAC diventa molto irrequieto, per cui chiamo la figlia per poterlo calmare e per permettergli una presenza familiare. D'improvviso, con la figlia al fianco, ha un arresto cardiorespiratorio. Inizio, nel modo più calmo ed ordinato che mi è possibile, la rianimazione; arrivano dopo poco anche i medici rianimatori con le loro macchine. Il tentativo non riesce: mi muore praticamente tra le mani. Sono molto coinvolta emotivamente: "Avrò fatto tutto giusto? Dove ho sbagliato? Potevo fare di più?" Per alcuni giorni mi sento come se lo avessi ammazzato io.
Dopo alcuni giorni sono più calma, ho ripensato criticamente a quanto operato, e riesco anche a distaccarmi dalla tentazione di considerarmi troppo importante. Non mi rendo facile l'esame di coscienza, vado a confessarmi, ne parlo con il sacerdote. Alla fine, più convinta che mai di dovere imparare sempre di più per essere meglio preparata, accetto di lasciare a Dio il Suo posto. E' Lui il Signore della vita! Io sono solo un piccolo attrezzo a sua disposizione.
Con questo non voglio cercare una scusa, ma non cadere nella trappola del sentirsi onnipotenti.
La sofferenza e la morte sconvolgono. Mi aiuta guardare Maria sotto la croce del suo Figlio e desidero imparare da lei. Così dovrà essere quanto faccio, alla presenza del Cristo, in preghiera.

Traccia per il lavoro personale (tempo: 20')
- Se desidero, posso riprendere la lettura di una delle testimonianze ascoltate, quella che richiama maggiormente il mio vissuto.
- Ripensando alla mia vita, considero le principali "perdite" che ho dovuto assumere. Mi concentro su una di queste, e la descrivo brevemente (mi appunto alcune frasi o alcune parole che me la ricordano).

Traccia per il lavoro di gruppo (tempo: 20')
In gruppo siete invitati a condividere liberamente qualcosa della vostra riflessione, ad esempio:
- ritornare su alcune testimonianze ascoltate, particolarmente vicine alla vostra esperienza;
- dire come avete fatto il vostro esercizio personale, se e come vi è stato utile, che emozioni/pensieri vi ha suscitato;
- raccontare, se volete, il contenuto della vostra esperienza di '"perdita" analizzata.
L'esercizio di condivisione deve avvenire nel modo più libero possibile. Ciascuno si implica nella misura che ritiene opportuna per sé.

Rilettura delle testimonianze ascoltate
- Abbiamo ascoltato, in un clima di intensa partecipazione, e certo con molta emozione, tre
esperienze che attraversano l'arco della vita: il fidanzamento, la convivenza con il proprio handicap, l'esperienza del morire.
Queste esperienze aprono questo laboratorio non con il registro del ragionamento, ma con quello del racconto, che unisce emozioni e pensieri sulla trama di storie di vita.
C'è un aspetto che unisce tutti questi racconti, pur nella diversità e nell'unicità di ciascuno di essi: è l'accettazione del limite, l'integrazione di quello che non dipende da noi, di quello che non vorremmo accadesse e che siamo semplicemente chiamati ad accettare.
"Chinare il capo"' è l'espressione simbolica che abbiamo scelto per affrontare questo laboratorio di formazione, che è essenzialmente autoformazione.
Abbiamo scelto questa espressione pur essendo consapevoli della sua ambiguità; chinare il capo può significare subire passivamente una situazione (cioè non scegliere), oppure acconsentire (cioè accettare di non dominare la vita e saper sempre scegliere dentro le possibilità che ci sono concesse e i limiti che la vita ci impone).
Proprio su questo filo così sottile tra passività e acconsentimento si svolgerà la nostra
meditazione formativa.

- "Chinare il capo' nel senso di "acconsentire" è un atteggiamento rispetto alla vita, ma vi si accede tramite un processo, cioè un percorso spesso molto lungo, un percorso con tappe che vanno varcate.
Tenendo come sottofondo le esperienze ascoltate, possiamo cercare di individuare, per punti, i tratti di questo processo.
1. Ciascuno di noi vive sulla base di un 'copione di vita", cioè di un piano di vita di cui siamo al contempo i registi e gli attori. In termini più ecclesiali noi parliamo spesso di "progetto di vita", ma il termine "copione" ha un vantaggio: dice da una parte che si tratta di un programma ricevuto (nel teatro si riceve un copione da interpretare) e dall'altra di un programma di cui diventiamo interpreti creativi. E di fatto il personale "copione" di vita appare come una struttura di base ricevuta (dai genitori, che ce lo hanno introiettato, dalle persone che ci hanno educato, ma soprattutto dalla vita con le sue possibilità e i suoi limiti); d'altra parte questo "copione" in un certo senso ricevuto, diventa il "nostro" nella misura in cui lo assumiamo e lo riassumiamo continuamente, nella misura in cui, cioè, scegliamo. Scegliamo di accoglierlo e integriamo tutte le modifiche delle quali dobbiamo prendere atto mentre lo attuiamo: le modifiche che sono presentate dalla vita e che non sono volute da noi. In questo paradosso di accettare, fare proprio, rinunciare e rifare nuovamente proprio, sta il processo di maturazione della vita.
2. Cosa sta nel "cuore" del proprio copione di vita? Cosa lo sostiene come il suo perno? Sta la relazione con le persone (una o più) con le quali si ha un attaccamento. L'attaccamento costituisce la base sicura che fa stare bene nella propria pelle, nella propria vita. Può anche essere che questa "base sicura" ci abbia fatto del male, ci abbia ferito e causato dolore. Non sono solo le persone, ma anche il nostro ambiente, la casa, un certo lavoro, e di conseguenza un'immagine di sé.
3. In qualsiasi storia il dolore più grande è sempre legato alla separazione dal legame rispetto alla propria base sicura, e al conseguente processo di lutto. Il lutto è una profonda sofferenza emotiva causata da una perdita. Perdita e distacco sono la base della separazione e questo provoca dolore.
"Elaborare un lutto" è un'espressione importante: la usiamo per dire appunto quel processo tramite il quale una perdita è integrata, accolta. Questa "accoglienza della perdita" non costituisce la fine dei legami, ma al contrario il primo passo verso la formazione di un nuovo legame e quindi di un nuovo attaccamento alla vita.
Si dice che è sano il copione di una persona che riesce a elaborare un lutto, una perdita, lasciando andare ciò che ormai è finito. "Lasciar andare" è una decisione di tutto se stessi (mente ed emozioni). Il processo di elaborazione di un lutto è quindi un processo di crescita, di fatto l'unico modo di crescere: della fidanzata che integra la diversità della persona che ama, del giovane che elabora il lutto del proprio handicap, di chi è misurato alla morte e non la nega, ma la accoglie... Possiamo continuare i racconti per molto tempo.
Un albero non cresce solo verso l'alto, ma anche sotto terra: una quercia ha enormi radici che si sviluppano sotto terra. Genitori, educatori, sacerdoti, amici... ci invitano a crescere verso l'alto. Chi ci aiuta a crescere verso il basso, affinché il nostro albero non crolli improvvisamente e fragorosamente a terra? Come si fa a crescere verso il basso? Attraverso il lutto, il dolore. nell'attribuzione di significato al dolore, nella ricerca del senso della sofferenza. Il lutto, il dolore rappresentano il fulcro del rilegarsi alla vita e alle persone e sono i responsabili della nostra crescita verso il basso, in profondità.
4. L'elaborazione del lutto come passo decisivo verso un nuovo attaccamento più profondo e maturo alla vita presenta in genere alcune tappe, che sono così indicate: la negazione; la rabbia; la mediazione; la depressione; l'accettazione.
a) La negazione. Può essere la negazione della realtà (non mi importa; non è vero) o la negazione dei sentimenti che non siamo pronti ad affrontare (non importa; non fa niente; non è niente ...).
b) La rabbia. Emerge quando smettiamo di negare la nostra perdita. E' dovuta alla perdita e
all'impossibilità di ritrovare quanto si è perduto. Il rimpianto è legato a questa fase.
e) La mediazione. E' il tentativo successivo di mediazione con la vita, con noi stessi, con un'altra persona. E' una specie di compromesso provvisorio.
e) La depressione. Quando ci si rende conto del fallimento della mediazione, può succedere la fase di una profonda depressione. E’ la perdita che viene sentita in tutta la sua realtà, associandosi a sentimenti di debolezza, impotenza, tristezza, autocommiserazione, colpa...
d) Accettazione. L'ultima tappa è l'accettazione. Non è necessariamente una fase serena. Essa appare in genere priva di sentimenti, come se il dolore fosse svanito e la battaglia si potesse considerare conclusa. Si avverte un senso di pace. L'accettazione è la decisione ulteriore (emotiva) di riprendere nuovi legami, con la vita e le persone.
C'è un detto che afferma: "Per una porta che si chiude, se ne apre sempre un'altra". Talvolta però noi non entriamo nelle porte che si aprono perché rimaniamo voltati indietro guardando la porta che si è chiusa. Ogni lutto è apertura di nuove possibilità, anche se alcuni lutti sono tremendamente dolorosi.
Che cosa è "chinare il capo", secondo questa prospettiva? Accettare di vivere e rivivere in differenti fasi della nostra esistenza questo processo di cui abbiamo individuato le tappe: dentro il nostro copione di vita accettare le perdite della base sicura, accogliere il dolore di queste perdite, elaborare il lutto in tutte le sue fasi, decidere di ri-legarsi, assumendo cosi a nuove spese il proprio copione di vita.
Questo processo può rimanere incompiuto, alcune volte bloccato nella rabbia, nel dolore, nel
rimpianto.
Nel corso della vita siamo chiamati ad affrontare ripetutamente questo processo, questo circolo.
Acconsentire significa trovare il significato delle proprie perdite e scegliere rispetto a quanto non ci è possibile decidere. Verrà il momento nel quale la vita ci chiederà la separazione da qualsiasi base sicura, il momento del nostro morire. Eppure non sarà il nostro finire, se ci saremo allenati, come vedremo. Sarà l'affidamento radicale, l'ultimo e definitivo assenso del nostro capo alla vita, che ci sarà ancora una volta regalata in una modalità inedita, al di là di ogni nostro programma e copione.
Fratel Enzo Biemmi

Attualizzazione personale (scelgo un momento in cui da solo/a riesamino la mia vita alla luce di quanto sperimentato)
- Ripercorro con la memoria le tappe collegato al processo di lutto che ho dovuto assumere rispetto a questa "perdita". Scrivo i sentimenti provati, così come me li ricordo.
- Provo a dire se il lutto è stato rielaborato, se mi ha permesso di ri-legare con la vita e le persone. oppure se è stato (o è ) ancora in fase di attuazione.