ore 10.24
I 25 anni di sacerdozio di don Andrea Tanchi
di Luca Marcelli
«Eri l’immagine della felicità!».
Questo hanno detto i parrocchiani di Monsampolo del Tronto e delle frazioni di Stella e Sant’Egidio a don Andrea Tanchi, il loro parroco, nel giorno del suo venticinquesimo di ordinazione presbiterale.
E ci sarebbe da riflettere già su quest’aspetto. Sì, perché nel sentire comune la vita del sacerdote viene solitamente descritta come una lista di rinunce. Insomma un corposo novero di cose dai più ritenute piacevoli e dalle quali i presbiteri dovrebbero astenersi obtorto collo per via di una missione più alta. In questa prospettiva un sacerdote che vive con gioia la propria missione subisce ad occhi superficiali due distorsioni: o viene trasfigurato in un mistico, tutto preso in un purismo disincarnato e perciò poco evangelico, o in un ingenuo, ugualmente fuori dal mondo, che s’accontenta di ciò che passa il convento.
Nella frase in apertura di questo pezzo ci viene invece offerta dalla vox populi una prospettiva diversa: c’è la centralità di un ministero che, nella dedizione totale, trova in sé una gioia piena e non la somma di surrogati. È la gioia di chi condivide la mensa con quanti gli sono stati affidati, assistendo con loro e per loro, ogni giorno, al prodigio della presenza reale di Cristo nei sacramenti. È la gioia di un uomo libero da paure e pregiudizi che non ha bisogno del potere come di un esoscheletro e che fa dell’altare un ponte perché Cristo arrivi a tutti (e non un muro per proteggersi dai lontani o dai vicini troppo impegnativi).
«C’erano proprio tutti».
E’ stata la considerazione più diffusa tra i presenti alla festa, in una piazza che prima di don Andrea avevano riempito solo i suoi amati Nomadi. E anche su questo ci sarebbero alcuni appunti da fare… Ci sono sacerdoti che attendono per giornate intere i parrocchiani in sacrestia o sul sagrato salvo interrogarsi poi sul perché non vengano. Ce ne sono altri che invece si sforzano di vivere al meglio la liturgia nel duplice aspetto apicale e fontale per la vita cristiana.
Ecco perché la giornata di festa per don Andrea ha trovato il proprio culmine nella Santa Messa in piazza. Non come accade talvolta con la celebrazione di alcuni sacramenti, consumisticamente ridotti a cerimonie, in cui gli invitati si presentano solo al banchetto. Per don Andrea, una comunità intera ha voluto celebrare con lui, a ennesima testimonianza di come tutto abbia origine e trovi sintesi nella celebrazione eucaristica e soprattutto di come la capacità relazionale di un sacerdote – oramai sempre più indispensabile – non sia accessoria ma sia indissolubile dal suo presiedere il rito.
«E il vescovo che ha concelebrato?».
Anche questo dettaglio non è passato inosservato agli intervenuti che hanno visto in questo gesto la piena esplicitazione di cosa sia la cura pastorale. Papa Francesco lo ha ricordato più volte: si tratta di saper discernere le circostanze per comprendere quando camminare davanti, quando in mezzo, quando addirittura dietro al popolo di Dio. E la scelta di S.E. monsignor Palmieri di voler concelebrare – nella sua prima visita alle comunità monsampolesi – si è fatta chiara espressione di questa attenzione al momento, con le parole e con l’atteggiamento, ponendosi discretamente accanto.
«Alla fine, non trovava nemmeno il tempo di togliersi la veste».
Ecco, forse questo aspetto lo hanno intercettato solo gli occhi più attenti. È accaduto infatti che al termine della celebrazione non abbiamo assistito a quella sciamata che fa assomigliare l’assemblea liturgica al pubblico del cinema o dello stadio; tutti piuttosto – dal sindaco agli amici dell’Azione cattolica, dai ciclisti che lo accompagnano nelle sgambate agli ex parrocchiani e ai compagni di studi che ne conoscono il cuore – tutti si sono fermati all’agape fraterna conclusiva alla cui realizzazione parrocchiani ed esercenti hanno voluto dare il proprio generoso contributo.
E a don Andrea, con ancora indosso i paramenti, sembrava quasi non bastasse il tempo per dire GRAZIE, a tutti, uno ad uno. Un grazie, a ben guardare, con gli occhi lucidi di chi era l’immagine della felicità.